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Counseling Day 2023


 
Sono convinto che tornare a parlare di professioni e terziario in un paese come il nostro sia importante. Perché se giustamente l’attenzione dei media negli ultimi tempi è tornata ad interessarsi dei destini del nostro capitalismo manifatturiero, è l’intreccio tra questi due mondi la chiave per rimettere in agenda la questione dello sviluppo e del lavoro. Soprattutto giovanile. Dall’inizio della crisi in Italia la quota di laureati che trova lavoro ad un anno dal conseguimento del titolo è scesa dal 51,3 al 47,8 per cento. Nonostante valgano circa il 10% del Pil, le professioni (sia ordinistiche che “nuove”) vivono da tempo una crisi di ruolo sociale. Anche l’appeal del “fare professione” tra i giovani negli ultimi due anni è diminuito. Di questo passo rischiamo di giocarci un tessuto di intelligenza collettiva e di innovazione sociale senza il quale la vedo dura fare il salto di qualità.

A gennaio di quest’anno lo Stato ha deciso di riconoscere come professionismo il lavoro della conoscenza cresciuto fuori dal recinto degli ordini. Una legge arrivata dopo quasi un quindicennio di dualismo secondo il modello della “mela spaccata”: da una parte gli ordini, dall’altra parte chi non godeva di status pubblico. Gli uni a difendere l’esclusività del ruolo di tutela pubblica, gli altri a chiedere ora la rottura ora l’estensione del sistema di garanzie. In realtà tutti a fare i conti rispetto alla potenza di una transizione tecnologica e di mercato trasversale ai tradizionali confini tra vecchie e nuove professioni. Una moltitudine di 2.100.000 professionisti con ordine e 3,5 milioni che ne sono sprovvisti, dei quali un milione iscritto a una rete di 1.500 associazioni professionali. Numeri che prendo dal bel libro-dibattito sulla legge di Angelo Deiana del Colap in uscita per i tipi del Sole 24 Ore. Occasione importante per discutere alcuni temi che secondo me segneranno non solo l’efficacia della legge, quanto soprattutto la capacità espansiva e il ruolo sociale del lavoro professionale. Forse il primo passo è uscire da una visione sbagliata dell’economia della conoscenza: non è la pacifica e generalizzata transizione verso una società di nuovi ceti medi socialmente integrati ed economicamente garantiti. Nell’ultimo decennio espansione quantitativa e centralità produttiva hanno fatto esplodere la composizione sociale e tecnica del lavoro professionale. Le previsioni in sede europea ci dicono che la rivoluzione tecnologica della rete nel terziario consumerà le posizioni lavorative intermedie polarizzando il lavoro nuovo tra élite super professionalizzate e figure a bassa qualificazione. In Italia è sempre più divaricata la frattura generazionale, con la gran parte dei giovani professionisti che corrono il rischio di rimanere imprigionati in una condizione di vulnerabilità sociale e professionale.

Spinti sul mercato da una narrazione sulla classe creativa e da una macchina formativa enormemente sviluppatasi soprattutto nei grandi poli metropolitani, ma poco capace di affiancare alle competenze tecniche quegli skills organizzativi e imprenditoriali necessari per affrontare un rischio di mercato che la crisi ha innalzato drammaticamente. Un tema che dovrebbe riguardare anche il fenomeno delle startup, oggi forse un po’ troppo declinato sul fronte delle tecnologie e tropo poco su quello delle capacità sociali dei nuovi imprenditori. Sono convinto che su questo fronte il problema sia costruire linee di politica industriale che puntino a sviluppare l’innesto di saperi e reti terziarie nella forma-impresa manifatturiera.

Qui si apre un grande campo di riforma: il tema della produttività andrebbe declinato spingendo le imprese del capitalismo molecolare ad incorporare nuovi saperi che spesso il ricambio generazionale mette a loro disposizione gratis all’interno della fabbrica con l’assunzione di giovani già socializzati al salto di paradigma tecnologico e culturale. Oppure con la creazione di nuove forme-impresa in cui la cooperazione tra saper fare, saperi tecnologici e forme dell’innovazione sociale è costitutiva della produzione di valore: dai makers alle nuove forme di impresa che operano dentro la cultura della social innovation. L’estensione di queste pratiche alla massa delle imprese “tradizionali” rappresenterebbe la vera frontiera. La nuova legge mette l’accento sul rinnovamento e il rafforzamento del mondo delle associazioni professionali. Queste dovrebbero essere spinte a uscire dal professionalismo tradizionale, superare la frammentazione e l’ansia definitoria dei confini corporativi per acquisire nuove funzioni di rappresentanza. Perché oggi l’acquisizione da parte del giovane professionista degli skills richiesti dal mercato è sempre più frutto di scambio e cooperazione sociale e l’innovazione esito di mix trasversali tra diverse professioni e tra imprese e comunità di professionisti e consumatori fuori dalle mura della fabbrica. Anche l’efficacia del sistema di Certificazione nazionale delle competenze previsto dalla nuova legge dipenderà dalla capacità di creare criteri condivisi tra professionista e impresa per misurare il valore creato dal lavoro immateriale. Perché è dalla capacità di costruire un rapporto equilibrato con il capitalismo industriale che il nuovo professionismo può trarre per sé aumenti di produttività necessari a riprendere forza espansiva uscendo dalla condizione di “quinto stato” subalterno. Il terziario innovativo può crescere se trova agganci a produzioni e committenza solide. Che ciò avvenga anche nel mare magnum della piccola impresa manifatturiera è la scommessa che abbiamo davanti.

titolo: Per le professioni non basta la legge, serve innovazione
autore/curatore: Aldo Bonomi
fonte: Il Sole 24 Ore
data di pubblicazione: 09/06/2013
tags: legge 4/2013, associazioni professionali, ordini professionali, innovazione

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