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Il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, quando la speculazione contro l'Italia ha iniziato a farsi sentire sui mercati, ha tentato di giocare la carta della liberalizzazione delle professioni. Nero su bianco, l'emendamento circolato tra l'11 e il 12 luglio, avrebbe tra l'altro messo al bando l'esclusione delle società di capitali, le restrizioni alla pubblicità, il numero chiuso e la previsione di prezzi minimi. Non venivano escluse deroghe in base a ragioni di interesse pubblico, ma il principio generale era fissato nella libertà d'impresa. Il risultato del tentativo è ora suggellato nell'articolo 29 della manovra: fatte salve le categorie che si fondano sull'abilitazione attraverso l'esame di Stato il Governo formulerà «proposte di riforma in materia di liberalizzazione». Il testo di legge (articolo 29, comma 1 bis) è così generico e ambiguo che gli Ordini possono trarre argomenti per concludere di non essere tra i destinatari delle proposte di liberalizzazione. D'altra parte, contro la deregulation pensata da Tremonti si è mossa la schiera di avvocati-parlamentari, che è arrivata a minacciare di non votare la manovra se nel maxiemendamento fosse rimasto il manifesto per la liberalizzazione delle professioni.
Dunque, la liberalizzazione delle professioni sembra destinata a restare più o meno una chimera. Un po' meglio è andata nel 2006 a Pierluigi Bersani, che ha cancellato i minimi inderogabili, ha consentito il patto di quota lite e ha aperto gli studi alla pubblicità. Oltre a ribadire quello che in linea teorica avrebbe dovuto essere chiaro fin dal 1997: cioè che è possibile esercitare la professione anche in forma societaria. D'altra parte, le tariffe continuano a farsi valere come riferimento (e si applicano nelle controversie tra professionisti e clienti), la pubblicità è sottoposta al parere degli Ordini che ragionano in base al «decoro» e le società non sono disciplinate.
La partita sulla liberalizzazione delle professioni e dei servizi va avanti dal 1997, quando la relazione dell'Antitrust, guidata da Giuliano Amato, aveva messo in evidenza un universo fatto di almeno un milione di lavoratori che per statuto vivevano di regole sottratte alla concorrenza. Tariffe inderogabili, limiti alla pubblicità, divieto all'esercizio societario: un sistema – era la tesi dell'Antitrust – che consentiva di stabilizzare le quote di mercato.
Il ragionamento dell'Antitrust può essere valido ancora oggi? Se si dovesse giudicare, a livello generale, in base al numero dei professionisti si dovrebbe concludere che il settore non ha problemi di liberalizzazione. Ci sono, è vero, le eccezioni di notai e farmacisti che hanno ancora un numero chiuso (i primi sono pubblici ufficiali, i secondo hanno una limitazione rispetto alle sedi di titolarità). Tuttavia, nelle principali professioni gli iscritti alle Casse previdenziali, cioè coloro che effettivamente esercitano l'attività, sono più che raddoppiati in 15 anni: per esempio, gli avvocati sono passati da 64.456 (nel 1996) a 152.097 (nel 2009), i commercialisti sono cresciuti da 22.098 a 51.858, gli ingegneri e gli architetti sono saliti da 62.573 a 149.101. Va però rilevato che le procedure di accesso non sono esenti da storture. Il tirocinio è spesso un periodo non pagato e per alcune professioni il tasso di successo all'esame di Stato è molto basso: per gli avvocati, per esempio, si attesta intorno al 25%, in diminuzione negli ultimi anni (ci sono punte anche più basse nelle Corti d'appello del Nord). Occorrerebbe dunque garantire, anche con borse di studio, la possibilità del tirocinio e assicurare, agli esami, criteri di valutazione uniformi. E poi, per quanto riguarda l'esercizio della professione, è necessario liberare nuove quote di mercato: le società, anche multiprofessionali, dovrebbero servire a mettere in campo pacchetti integrati, magari a prezzi competitivi.
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titolo: Sulle professioni cammino lento
autore/curatore: Redazione
fonte: Il Sole 24 ORE
data di pubblicazione: 23/07/2011
tags: liberalizzazioni, professioni, ordini professionali, associazioni
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