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Professioni riconoscibili, responsabili quando sbagliano, facilmente accessibili, mobili su tutto il territorio e che offrono servizi di alta qualità, multidisciplinari. Così le vorrebbe l’Europa, sin dagli albori della 'strategia di Lisbona' di inizio secolo, undici anni fa. Professioni che non restringono la concorrenza, ma la dilatano. Dinamiche, competitive in tutti i paesi dell’Unione, senza confini geografici né di qualifiche. Senza i lacci e lacciuoli delle tariffe (minime e massime), delle restrizioni nel farsi pubblicità e dunque a competere, delle barriere all’accesso (esami, numeri chiusi), dei limiti nel costituirsi in società anche di capitali e interdisciplinari o in catene di franchising.
I servizi rappresentano il 54% del Pil dell’Unione europea e il 67% della forza lavoro. Un concetto che ritroviamo in tutte le raccomandazioni, comunicazioni, relazioni elaborate dagli organi della Ue, Commissione e Consiglio, nell’ultimo decennio. E che di fatto ispirano le due direttive cardine di riferimento per le professioni 'regolamentate': la direttiva qualifiche, la 36 del 2005 (la Zappalà) e la direttiva servizi, la 123 del 2006 (ex Bolkestein). Entrambe recepite dal nostro Paese, ma scarsamente funzionanti da noi come altrove in Europa.
Eppure, in tempi di grandi (e inconcludenti) dibattiti sulla liberalizzazione delle professioni per rilanciare la crescita dell’Italia, con gli Ordini pronti alle barricate per difendere i privilegi di casta, come sostiene chi quegli Ordini vetusti vorrebbe abolire, si potrebbe ripartire proprio da lì. Dall’Europa che tutti citano per primo il ministro dell’Economia ma che nessuno guarda più.
Anche perché la stessa strategia di rilancio della Ue, il piano Europa 2020, cammina su due gambe: il risanamento dei conti e le riforme. L’Italia deve «introdurre misure per aprire il settore dei servizi ad un’ulteriore concorrenza, in particolare nell’ambito dei servizi professionali», si legge nell’ultima raccomandazione datata Bruxelles, 7 giugno 2011.
«Le liberalizzazioni sono solo un pretesto», va giù dura Marina Calderone, presidente del Comitato unitario professioni. Per smantellare le professioni, come dicono avvocati, commercialisti, architetti? «Indebolirle, fiaccarle e poi appropriarsene per fare utili, come un’azienda qualsiasi. Ma le professioni in Italia hanno la cornice della Costituzione e devono garantire ai cittadini servizi di qualità. Non solo. Sono conformi anche alla Zappalà. Siamo aperti a una riforma, ma che salvaguardi la dignità del sistema italiano».
Intanto, però, tutto rimane sulla carta, nelle commissioni, ai tavoli, nelle polemiche. E la concorrenza che vuole l’Europa? L’Italia è indietro. «Falsi problemi. I minimi tariffari non esistono più, aboliti da Bersani nel 2006. Risultato: ora si lavora anche con ribassi sugli appalti del 98%. Poi, il modello societario: noi diciamo sì, ma i soci di puro capitale non devono essere mai preponderanti, il controllo sempre nelle mani dei professionisti, questo proponiamo. Ancora: su 27 Ordini professionali, solo uno ha l’accesso programmato, i notai, ma si tratta di pubblici ufficiali. I professionisti italiani sono 2,1 milioni, il doppio di 10 anni fa. Dov’è la barriera? I medici, gli unici a porre un numero chiuso alle facoltà, avranno grossi problemi nei prossimi 5 anni e non riusciranno a laureare quanti servono per rimpiazzare chi va in pensione. Lo stesso per gli infermieri: già ora ne servono 13 mila in più. Il punto è un altro: la formazione universitaria. Occorre una programmazione intelligente». Basterà per essere più 'europei'? «Un rapporto più stretto tra aula e mercato delle professioni. Puntiamo su questo e avremo più competitività e competenza da giocare anche in Europa».
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titolo: Professionisti e liberalizzazioni
autore/curatore: Valentina Conte
fonte: La Repubblica
data di pubblicazione: 25/07/2011
tags: professioni, liberalizzazioni, ordini professionali, associazioni, cup
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