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Counseling Day 2023


 
Nelle ultime settimane gira con sempre più insistenza la voce che la Regione Lombardia avrebbe riconosciuto il counseling. Ma le cose stanno davvero così? Con questo articolo spiegherò che non è stato riconosciuto il counseling, ma il suo profilo professionale e che questa non è affatto una buona notizia.

Con il Decreto n. 8885 del 20 luglio 2017 (identificativo atto n. 458), la Direzione Generale Istruzione, Formazione e Lavoro della Regione Lombardia ha aggiornato il Quadro Regionale degli Standard Professionali (QRSP) con l’inserimento di nuovi profili e nuove competenze. Tra questi il profilo professionale di “counsellor”.

Si tratta di un profilo che rientra nelle così dette “competenze indipendenti”. Diverso, per esempio, dalle così dette competenze “regolamentate” o da quelle “abilitanti”.

Così come riportato sul sito della Regione Lombardia, il
Quadro Regionale degli Standard Professionali (QRSP) definisce e classifica l'insieme dei profili professionali, declinati in competenze, caratteristici ed attivi nel mondo del lavoro lombardo. Il Quadro Regionale di standard professionali, costruito secondo regole coerenti con i modelli europei e nazionali, rappresenta il riferimento univoco per la progettazione e la realizzazione dei percorsi di formazione continua, permanente e di specializzazione nonché per la certificazione delle competenze acquisite in qualsiasi ambito, che possano avere un riconoscimento “pubblico”
Premesso che in Regione Lombardia esisteva già da molti anni un profilo analogo (Operatore della Relazione di Aiuto – Counselor) e che profili simili esistono in altre regioni italiane (Campania, Toscana, etc.), Federcounseling esprime una posizione fortemente critica verso questo tipo di operazioni quando queste non avvengono con quella concertazione necessaria a non creare squilibri all’interno di un sistema che, ancora oggi, è molto precario.

Premetto che l’argomento è assai spinoso e potrebbe annoiare i più, ma ritengo che sia doveroso da parte nostra affrontarlo in maniera puntuale ed esaustiva.

Quando ci si appresta a portare avanti determinate operazioni, si dovrebbe avere un minimo di lungimiranza e rendersi conto che certe scelte poi ricadono su un’intera categoria professionale.

Professioni regolamentate e professioni non regolamentate

Con riferimento alla disciplina generale esistono due grandi gruppi di professioni: quelle regolamentate e quelle non regolamentate.

Le professioni regolamentate sono quelle per cui lo Stato, attraverso una Legge, una norma o comunque un atto formale, consente il loro esercizio solo a chi è in possesso di determinati requisiti. Generalmente viene definito un iter formativo e un periodo di tirocinio a seguito del quale si affronta un esame abilitante. A questo punto le professioni regolamentate si dividono in due sottogruppi: le professioni regolamentate ordinistiche e le professioni regolamentate non ordinistiche.

Nel primo caso lo Stato, oltre a definirne gli standard, decide che tali professioni debbano essere organizzate in istituti privati di diritto pubblico: gli Ordini professionali. Tanto che, in assenza dell’iscrizione all’Ordine, è vietato l’esercizio della professione.

Nel secondo caso lo Stato non prevede l’istituzione di un Ordine (o organismo analogo), fermo restando la regolamentazione della professione. È, per esempio, il caso dell’Operatore Socio Sanitario, dell’Estetista o del Tecnico del Restauro. Questo significa che, pur non esistendo l’Ordine dei “Tecnici del Restauro”, per esercitare tale professione occorre aver comunque seguito un iter formativo e abilitante così come definito dallo Stato.

Dalla modifica del Titolo V della Costituzione del 2001 (Legge 3/2001), l’istituzione di nuove professioni avviene attraverso un accordo all’interno della Conferenza Stato-Regioni per l’approvazione degli standard minimi sia formativi che professionali.

Le professione non regolamentate, invece, sono quelle attività professionali che sono caratterizzate dall’assenza di un vincolo in materia di accesso ed esercizio posto dallo Stato. Tali professioni, oggi, hanno un’unica norma di riferimento che è la Legge 4/2013 (Disposizioni in materia di professioni non organizzate).

In riferimento alle professioni regolamentate, ma non organizzate in Ordini, ogni regione italiana può promuovere standard formativi che consentano l’accesso a detta professione secondo criteri definiti in Conferenza Stato-Regioni e validi su tutto il territorio nazionale. Sono i così detti percorsi abilitanti.

Tali profili sono omogenei e validi in tutta Italia.

Esistono poi dei particolari profili, caratteristici e specifici di ogni regione italiana, dove sono le stesse regioni a definire dei criteri (formativi, professionali, etc.) che diventano vincolanti se si vuole esercitare quella professione in quella determinata regione. Sono i così detti percorsi regolamentati.

Poiché tali percorsi valgono solo in quella determinata regione, gli stessi non hanno valore abilitante (poiché al di fuori dei confini regionali non avrebbero valore).

Nel nostro caso il profilo di “counsellor” non è né un percorso regolamentato né tanto meno abilitante, ma afferisce a quelle che propriamente vengono definite dal QRSP “competenze indipendenti”.

Coerentemente con i quadri normativi di riferimento la Regione Lombardia, all’interno del sistema di certificazione delle competenze, decide legittimamente di occuparsi del counselor.

Perché dunque una nostra posizione critica?

In primis occorre ricordare che il counseling non è una professione regolamentata dallo Stato, non esistono cioè criteri condivisi in merito alla formazione, al tirocinio, all’accesso e all’esercizio.

Da circa 20 anni le associazioni di categoria, nel più assordante silenzio e disinteresse da parte dello Stato, si trovano a combattere una difficilissima battaglia la cui posta in gioco è il riconoscimento della professione. Di fatto alcune migliaia di professionisti devono quotidianamente guadagnarsi il diritto stesso di esistere.

Tutto questo avviene avendo da una parte la storica contrarietà dell’Ordine degli psicologi il quale, su più fronti (giuridico, normativo, etc.), tenta di dimostrare che il counseling dovrebbe essere una competenza spendibile solo da chi è iscritto all’Ordine degli psicologi e, dall’altra, la necessità di gestire coloro che, sfruttando furbescamente l’assenza di regolamentazione, spacciano per counseling attività che con il counseling non hanno niente a che vedere.

La formazione in counseling

Dalla fine degli anni ’90 il counseling in Italia prevede una formazione triennale, rispettosa di determinati standard e parametri formativi, ai quali si attengono la maggior parte delle associazioni professionali di categoria e certamente tutte e sette le associazioni che compongono Federcounseling.

Tali standard sono stati costruiti negli anni di concerto tra le principali associazioni di categoria italiane, la maggior parte degli istituti di formazione e le associazioni di counseling straniere.

Tali standard sono però aleatori giacché, in assenza di una regolamentazione dello Stato, chiunque è libero di parametrare la formazione in counseling con criteri propri. L’accordo vigente tra le principali associazioni di categoria è definibile infatti come una sorta di gentlemen agreement, non avendo di fatto alcuna valenza giudizialmente difendibile.

Ad oggi noi non potremmo dire che una formazione triennale è migliore di una formazione annuale. Quello che possiamo fare, come associazioni, è definire degli standard di accesso che prevedono che la formazione debba essere triennale, coerentemente con quello che stabilisce la nostra unica norma di riferimento che è, appunto, la Legge 4/2013 e quindi rifiutarci di iscrivere tutti coloro che non rispondono ai nostri standard.

Vero è che mi si gela il sangue quando apprendo, su internet, dell’esistenza di corsi annuali, mensili e financo settimanali. Ma tant’è e poco ci possiamo fare, se non cercare di fare corretta informazione e di far valere le nostre ragioni sul piano culturale e professionale. Certamente, vista la situazione attuale, non potremmo farle valere sul piano normativo, poiché tale piano semplicemente non esiste.

A margine di questo (si fa per dire) molti organismi (tra cui le associazioni professionali di counseling) stanno contribuendo alla stesura della norma tecnica UNI sul counseling, così come previsto dalla stessa Legge 4/2013 in merito al concetto della così detta “autoregolamentazione volontaria” dei professionisti.

Sulla base delle conoscenze attuali la norma tecnica UNI dovrebbe prevedere, tra le altre cose, una formazione di base triennale simile a quella definita oggi dalle principali associazioni di categoria italiane.

Il combinato disposto tra Legge 4/2013 e Decreto Legislativo 13/2013 prevede che, in presenza di una norma UNI, le associazioni di categoria dovranno assoggettarsi a tali standard. Ciò significa che, ad esempio, se un domani la norma UNI sul counseling prevedesse effettivamente una formazione di durata triennale, le associazioni di categoria non potrebbero iscrivere coloro la cui formazione è inferiore ai tre anni.

Il paradosso dei corsi regionali

I corsi di formazione riconosciuti dalle varie regioni italiane prevedono, però, che la formazione sia articolata da un minimo di 1 a un massimo di 2 anni, con monte ore formativo compreso tra 600 e 1200 ore.

Ecco il primo paradosso: da una parte chi frequenta un corso con riconoscimento regionale non può iscriversi a un’associazione di categoria di counseling, ma di fatto possiede un titolo di studio pubblico avente valore legale (in quanto rilasciato da un ente pubblico), dall’altra chi frequenta un corso privato rispondente ai requisiti stabiliti dalle associazioni può iscriversi alle stesse, ma di fatto possiede un titolo privato privo di qualsivoglia valore legale.

Il problema sarebbe facilmente risolvibile se le associazioni decidessero di abbassare a un biennio la formazione in counseling (dunque da 3 a 2 anni).

Ma ecco il secondo paradosso: se un domani la norma UNI sul counseling venisse approvata così come è strutturata oggi (ovvero con la formazione triennale), le associazioni professionali di categoria di cui alla Legge 4/2013, “per legge”, non potrebbero iscrivere coloro che possiedono un titolo formativo di counseling riconosciuto, ad esempio, dalla Regione Lombardia (poiché biennale).

Qui il problema sarebbe facilmente risolvibile se la norma UNI venisse riscritta, vanificando cioè anni e anni di lavoro.

In pratica si andrebbe a strutturare una sorta di cortocircuito dal quale, in tutta franchezza, almeno al momento non saprei come uscirne.

Detto questo, però, mi chiedo: siccome il profilo professionale varato in Regione Lombardia (biennale) ha trovato come “sponsor” un’associazione professionale di categoria di counseling e siccome tale associazione, parimenti, porta avanti con le altre associazioni la norma UNI (triennale), esattamente come pensa questa associazione di conciliare questa discrepanza?

Fino a quando le associazioni professionali di categoria di counseling non troveranno un punto di incontro sui requisiti di accesso alla professione e non diventeranno parte integrante del processo di concertazione, non riusciremo ad avere degli standard omogenei e questo renderà sempre più perigliosa la strada verso il riconoscimento della nostra professione.

Riferimenti normativi

Legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (“Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione”)

Legge 28 giugno 2012, n. 92 (“Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita”)

Legge 14 gennaio 2013, n. 4 (“Disposizioni in materia di professioni non organizzate”)

Decreto legislativo 16 gennaio 2013, n. 13 (“Definizione delle norme generali e dei livelli essenziali delle prestazioni per l’individuazione e validazione degli apprendimenti non formali e informali e degli standard minimi di servizio del sistema nazionale di certificazione delle competenze, a norma dell’articolo 4, commi 58 e 68, della legge 28 giugno 2012, n. 92”)

Decreto interministeriale (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca) 30 giugno 2015 (“Definizione di un quadro operativo per il riconoscimento a livello nazionale delle qualificazioni regionali e delle relative competenze, nell’ambito del Repertorio nazionale dei titoli di istruzione e formazione e delle qualificazioni professionali di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 16 gennaio 2013, n. 13.”)

Decreto della Regione Lombardia 20 luglio 2017, n. 8885 (“Aggiornamento del quadro regionale degli standard professionali di Regione Lombardia con l’inserimento di nuovi profili e nuove competenze”)

titolo: La Regione Lombardia vara il profilo professionale di counselor. Bene. Anzi no
autore/curatore: Tommaso Valleri
argomento: Professione
fonte: Federcounseling
data di pubblicazione: 27/10/2017
keywords: D. Lgs. 13/2013, Legge 4/2013, norma tecnica, Profilo professionale, Regione Lombardia, Riconoscimento regionale, uni

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