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Counseling Day 2023


 
Per un dibattito sull'epistemologia del counseling: la risposta di AssoCounseling all'editoriale di AltraPsicologiaDopo lunghi mesi di silenzio, complice probabilmente le imminenti elezioni dell’Enpap (l’ente di previdenza degli psicologi) e l’avvio della Consensus conference promossa dal Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi, il giorno dell’Immacolata AltraPsicologia ha sentito l’esigenza di rappresentare la propria posizione ufficiale, a firma di larga parte del suo gruppo dirigente, rispetto al counseling.

L’editoriale (la cui versione integrale trovate qui) è a nostro avviso tendenzioso e merita una risposta puntuale.

AltraPsicologia scrive che:

“Sul piano scientifico, il counseling ha i propri principali fondamenti epistemologici in teorie e tecniche di riferimento riconducibili alla Psicologia e alla Psicoterapia. Di fatto il counseling è psicologico”.
Questo è semplicemente falso: troviamo questa semplificazione poco rispettosa dell’indubbia preparazione e formazione culturale degli scriventi che dimostrano di trascurare il dibattito sull’epistemologia, dibattito che non è certo un’invenzione dei counselor!

Nella postmodernità l’episteme, la conoscenza esatta, abbandona la sua pretesa di imporsi come sapere certo e stabile per accogliere in sé il possibile, il cambiamento, il divenire dei fenomeni nella loro multiformità e creatività. L’epistemologia viene così ad essere definita come “epistemologia della complessità”, una epistemologia che per la prima volta nella storia della scienza e delle teorie della conoscenza viene ad essere una epistemologia della vita capace di tenere al suo interno l’errore come fenomeno possibile, come realtà, come forma di esistenza. Alla luce di tale spostamento epistemologico mutano radicalmente il valore, il significato e il ruolo dell’epistemologia, la quale sposta il suo asse di attenzione dalla pretesa di scientificità, imposta anche alle scienze umane, alle teorie della conoscenza, della comunicazione e dei processi di vita.

Il paradigma della conoscenza si ridefinisce, infatti, nei termini dei processi della conoscenza, dei processi vivi (emotivi e cognitivi) dell’esperienza umana per cui la stessa epistemologia viene ulteriormente definita una epistemologia “sempre e inevitabilmente personale”. Il cambiamento, un vero e proprio salto quantico, che l’epistemologia ha avuto nella postmodernità sta dunque nel suo delinearsi come scienza che interpreta, accoglie e incornicia la complessità dei saperi e del reale: “Il problema cruciale del nostro tempo è quello della necessità di un pensiero in grado di raccogliere la sfida della complessità del reale, cioè in grado di afferrare i legami, le interazioni e le implicazioni reciproche, i fenomeni multidimensionali, le realtà che sono ad un tempo solidali e conflittuali” (Morin E., Introduzione al pensiero complesso).

Il counseling sin dal suo nascere, nella cornice del movimento umanistico-esistenziale, si presenta come conoscenza in azione, il livello teorico è radicato alla pratica professionale e da essa emerge come sapere attivo nella relazione tra persone e nell’esperienza che di essa viene fatta. Una pratica professionale, quella del counseling, che integra nel suo agire diverse prospettive e diversi saperi ponendosi domande antropologiche, interrogandosi sulla natura dei processi socio-educativi, sulle finalità e sugli obiettivi dei suoi interventi, sulla qualità e sull’efficacia delle relazioni che genera.

Oggi il counseling si manifesta come una pratica professionale che si nutre di diverse discipline – quali la psicologia, la filosofia, la pedagogia, l’antropologia, la sociologia – ed è chiamata a confrontarsi con differenti paradigmi e con una pluralità di modelli teorici quali, per citarne alcuni: l’esistenzialismo, la fenomenologia, la psicologia umanistica, il pragmatismo, la cibernetica, il costruttivismo, le teorie organizzative dei sistemi e della comunicazione.

Per concludere: si possono inoltre esplicitare quattro principi guida che iscriverebbero il counseling nell’epistemologia della complessità:
  1. il counseling è una relazione tra forme di vita in divenire, creative e capaci di autodeterminarsi;
  2. le teorie del counseling, trasversalmente ai diversi approcci, sono teorie in-azione;
  3. l’epistemologia è sempre un’epistemologia personale;
  4. l’epistemologia personale influenza la relazione di counseling e l’efficacia degli interventi.
Quanto appena esposto è solo una parte dell’ampio dibattito sull’epistemologia di cui sono stati protagonisti, lo scorso anno, migliaia di professionisti durante il 7° convegno nazionale di AssoCounseling ad Assago.


“Sul piano professionale, lo psicologo si occupa ad ampio spettro di tutto ciò che riguarda il funzionamento mentale e il comportamento, primariamente facilita processi di adattamento e cambiamento evolutivo, e quindi promuove salute e qualità di vita/lavoro”.
Siamo proprio sicuri che le cose stiano realmente così? Ci preme ricordare agli scriventi, che lo psicologo ha una storia culturale e una tradizione professionale molto giovane nel nostro paese, il che vuol dire che prima della loro “comparsa”, nel 1989, molte figure si sono occupate di questo “ampio spettro”, senza mai reclamare l’esclusività del prendersi cura dell’essere umano.

Concordiamo sul fatto che anche lo psicologo debba occuparsene nei modi e con gli strumenti che gli sono propri (a tal proposito, mentre sono molto chiari gli strumenti di uno psicoterapeuta, ancora attendiamo di avere altrettanta chiarezza sugli strumenti e gli atti tipici dello psicologo e soprattutto su come il curriculum formativo della laurea in psicologia li faciliti nella capacità di tradurre, ad esempio, l’esame di statistica e di neurofisiologia in competenza relazionale).

Detto questo, cosa state affermando? Che un pedagogista non facilita un cambiamento evolutivo? Che un assistente sociale non promuove una migliore qualità di vita? Che un sociologo o un antropologo non facilitano processi di adattamento? Che un educatore o un operatore di comunità non lavorano sul comportamento? Che un counselor non può attraversare a vari livelli questi temi?

Ci sembra una posizione culturalmente indifendibile.


“Sul piano sociale, non esiste esigenza di introdurre ulteriori figure “psicologiche”, per altro dequalificate rispetto allo psicologo, a disposizione dei cittadini, in un Paese (l’Italia) che già conta oltre 100.000 psicologi iscritti all’Albo”.
E questo è indubbiamente vero: non siamo figure “psicologiche” per tutti i motivi esposti precedentemente. Il fatto che abbiate un Albo con 100.000 psicologi, di cui buona parte in cerca di lavoro, è un tema di cui dovreste occuparvi e preoccuparvi. A partire da una riforma del piano di studi, per esempio, dato che lo stesso si è rivelato totalmente inefficace (non a caso tanti laureati in psicologia e tanti psicologi scelgono di frequentare percorsi formativi in counseling per fare esperienza del termine “relazione”). Proseguendo con una riforma del proprio Ordine professionale, magari, dato che lo stesso si sta rivelando uno strumento obsoleto e limitato per favorire uno sviluppo sostenibile della vostra professione.

Il counselor non è uno “psicologo dequalificato”, ma una figura professionale diversa e la vostra difficoltà a confrontarvi con ciò che è diverso, non rende una buona immagine neppure dei principi etici e deontologici adottati dalla vostra stessa comunità professionale.


“Sul piano normativo, la normazione italiana e la giurisprudenza in divenire prevedono e riconoscono l’esistenza del counseling come atto e prerogativa della professione di psicologo”.
Questo è decisamente falso! Tralasciamo il fatto che norma (a cui l’aggettivo normativo si riferisce) e normazione sono due cose diverse (ma quanta confusione!), di quale “normazione” stiamo parlando?

In merito alla giurisprudenza, invece, quella che si è formata nei rarissimi casi di esercizio abusivo di professione (un numero talmente esiguo di sentenze che si possono contare sulle dita di una mano), ha chiaramente distinto la figura professionale del counselor rispetto a quella dello psicologo.


“Non ha motivo – né normativo, né scientifico, né professionale, né sociale – di sussistere in Italia la figura del counselor come professione autonoma”.
Ecco arrivare la sentenza, tipica di chi, oltre ad essere parte in causa, si erge anche a giudice. Si potrebbe ridere a oltranza, se non fosse molto triste vedere tanta autoreferenzialità nel farsi le domande e nel darsi le risposte.

Considerato che le premesse sono false, logicamente anche questa conclusione lo è.

Tutti i giorni le persone si rivolgono ai counselor per trovare risposte in modo autonomo e scevro dalla pratica clinica e sanitaria, pratica nella quale ostinatamente vi siete posizionati pensando di entrare nell’olimpo dei curatori e che ben presto si è trasformata in una gabbia di stigmatizzazioni e pregiudizi anche da parte di molti vostri utenti. Continuare ad attaccare altri professionisti non sembra ad oggi la politica vincente per trovare lavoro.


“Elementi e competenze di counseling e di Psicologia possono essere legittimamente apprese da professionisti non psicologi (avvocato, insegnante, infermiere, prete, manager, ecc…) nella misura in cui contribuiscono a migliorare la loro attività primaria. Ad esempio, l’infermiere continuerà a svolgere la sua attività infermieristica, ciò non di meno potrà dotarsi di elementi e competenze di counseling e di psicologia per migliorare la sua professione di infermiere”.
Questo è indubbiamente vero: le competenze di counseling sono trasversali e utili in ogni professione.


“Quando l’attività di counseling è finalizzata ad intervenire su processi psichici, emotivi e/o comportamentali del cliente, il professionista abilitato è esclusivamente lo psicologo e l’attività si considera pacificamente atto tipico dello psicologo in quanto ricompresa nella definizione di sostegno psicologico. I professionisti non psicologi incorrono in abuso della professione di psicologo”.
Repetita iuvant: rimandiamo integralmente alla nostra seconda risposta.


“Lo psicologo docente o l’Ente di formazione possono effettuare attività di formazione su elementi di counseling a professionisti non psicologi nella misura in cui gli obiettivi didattici e gli esiti professionalizzanti dichiarati chiariscano, senza ombra di dubbio, che il percorso formativo non genera nessuna nuova figura professionale in grado di intervenire su dimensioni psichiche, emotive e/o comportamentali, ed unitamente dichiarino invece che tali apprendimenti “semplicemente” andranno a migliorare e performare la professione, l’attività primaria, che ciascun partecipante porta con se all’inizio del corso e continuerà a portare con sé dopo la fine del corso”.
Inutile dissimulare: un dubbio ci assale! Ci è chiaro chi sia lo psicologo docente che viene apertamente nominato, ma chi sarebbe l’ente di formazione? Non si vuole nominare il counselor formatore o trainer? Sarà mica che tutta questa storia nasce per dare lavoro allo psicologo docente, che diversamente resterebbe come Tom Hanks nel terminal dell’Albo ovvero con poche possibilità di ingresso nel mondo della professione?


“Un’ultima postilla è diretta a quei soggetti che cercano di arrampicarsi sugli specchi mediante l’utilizzo di terminologie non direttamente esplicitate nell’Art. 1 della 56/89, ma comunque ad esso chiaramente riconducibili.

Anche laddove la domanda esplicita non venga rappresentata come disagio psicologico, né tanto meno come disturbo psichico, ma si chieda di generare benessere, consapevolezza, potenziamento di risorse, ecc. mediante l’uso di empatia, ascolto attivo, sostegno, ecc. tale attività rimane tipica dello psicologo. Sia perché è scritto chiaramente nella legge istitutiva (laddove attribuisce a noi le attività di prevenzione, abilitazione-riabilitazione e sostegno in campo psicologico) sia perché tale lavoro implica delle competenze di base specificamente psicologiche.

Infatti, per generare benessere, consapevolezza, potenziamento di risorse, ecc. mediante l’uso di empatia, ascolto attivo, sostegno, ecc. sono necessarie:
  1. la capacità di fare una analisi della domanda (indipendentemente da ciò che ci chiede la persona: valutare quale siano esattamente i suoi bisogni, quali siano coerenti con l’obiettivo condiviso, se esistono e quali sono le necessità non funzionali con le quali non dobbiamo colludere, quali gli aspetti da focalizzare e definire meglio in quanto non ben chiari alla persona, ecc.);
  2. la capacità di tenere conto dell’intera struttura di personalità della persona, così come del contesto nel quale si muove; in modo da selezionare al meglio, con cognizione di causa, gli strumenti, le indicazioni e le azioni da consigliare – e quelle da evitare – al fine di migliorare la risposta, la compliance, l’empowerment.
Tutte queste valutazioni sono inscindibili da una valutazione complessa della persona che tenga conto degli aspetti emotivi, psichici, di personalità e di relazione che sono possibili solo con un’indagine psicologica e in base ad una competenza specifica che comporta l’abilitazione alla professione di psicologo”.

Quindi, provando a riassumere quanto sostenuto da AltraPsicologia, per essere empatici e stare all’interno di una relazione o un approccio rispettoso dell’evoluzione e dei desideri di una persona, dobbiamo nell’ordine:
  1. valutare ciò che la persona dice;
  2. tenere conto della struttura di personalità per consigliare le azioni da fare;
  3. fare un’indagine psicologica che solo lo psicologo può fare.
Concordiamo che valutare, indagare e consigliare sono atti che richiedono una indagine psicologica e in questa misura, aggiungiamo noi, sono atti tipici della professione di psicologo (anche se non esclusivi, pensiamo ad esempio al medico psicoterapeuta, allo psichiatra, etc.).

In effetti un counselor NON VALUTA, NON CONSIGLIA e NON INDAGA. Lo abbiamo imparato tutti, più o meno al primo incontro del percorso formativo per diventare counselor.


Ci auguriamo che i prossimi editoriali di AltraPsicologia siano più stimolanti e impegnativi per il dibattito professionale, dibattito al quale continuiamo a non sottrarci e che auspichiamo in ogni forma e in ogni contesto.

Certo è che in assenza dei requisiti minimi per dialogare, ovvero rispetto e riconoscimento reciproco, diventa molto difficile andare verso una direzione costruttiva.

La storia insegna che annientare l’altro o definire chi ha il diritto di esistere o non esistere, non ha mai portato nulla di buono.

In bocca al lupo a tutti noi!


Firmatari
Valeria Balistreri, Membro del Consiglio di Presidenza Nazionale di AssoCounseling
Alessandra Caporale, Tesoriere di AssoCounseling
Lucia Fani, Presidente di AssoCounseling
Giorgio Lavelli, Vicepresidente di AssoCounseling
Tommaso Valleri, Segretario Generale di AssoCounseling

titolo: Per un dibattito sull'epistemologia del counseling: la risposta di AssoCounseling all'editoriale di AltraPsicologia
autore/curatore: Consiglio di Presidenza Nazionale
argomento: Politica professionale
fonte: AssoCounseling
data di pubblicazione: 12/12/2016
keywords: counseling, epistemologia, psicologia, altrapsicologia, assocounseling, cnop

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